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al testo di Emanuele Zeta
Foto d’un pino marittimo morto
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Nella trama che racconta un albero spoglio e secco tracciato a china su un azzurro che si perde già nel passato c’è la suggestione di qualcosa che per passare al vento dalla terra, nel suo circolo svagato e senza orari, costruiva paziente nei secoli la giusta struttura radiante, soltanto uno sterile cerebralismo come un altro. C’è la storia priva di morale figurata nelle valli e nei canyon e in certe sassose mulattiere spraticate soffocate da sterpi, che altri, più o meno uomini di noi (ciò è da stabilire) avrebbero forse chiamato fiume o torrente, fossero stati già pratici d’inventari; c’è l’afasica epigrafe, o sembra esserci, del mito su cui interrogano le bianche pizie della nostra era il mitocondrio renitente e in fondo ignaro, soprattutto della renitenza. In quell’incidentale monumento a ciò che senza scampo chiamiamo morte si ripete l’intreccio medesimo nascosto nella carne del braccio e della mano che scrivono per me, lo stesso che s’espande dal collo nella polposa testa che pensa d’essere me, punta più punta meno, dove si registra momentaneo un fluire senza fine che, mi dicono, ha nome vita.
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